Come promesso, non parlo di cose tecnico-scientifiche.
Il pezzo allegato è politico - anche questo contro corrente. Condivido
in Svizzera nel Luglio 1944, quando in Italia c'erano i tedeschi. Nel testo
fa anche un accenno ai partigiani.
Italia nel 1945. Era sceso al Grand Hotel. Quella sera c'era anche il Prof
tensioni nelle catenarie dei conduttori delle linee elettriche. Studiai
linea elettrica Terni-Genova.
Abolire
province o prefetture? Di Roberto
Vacca, 6 Aprile 2012
Il Governo riduce
il bilancio delle prefetture di mezzo miliardo. Ridurrà un po’ il deficit. Nessuno
dice, però, quanto costino all’anno i prefetti. Si può risparmiare ben di più. Si
è parlato di abolire le province che hanno funzioni concrete: istruzione,
cultura, turismo, trasporti, viabilità, territorio, protezione dell’ambiente,
sviluppo economico. Se le aboliamo, altri vicarieranno le loro funzioni. Il
risparmio sarà illusorio: consisterà in controllo di qualità e innalzamento
dell’efficienza. di cui c’è sempre bisogno. Indago in rete sul costo annuo di
province e prefetture. [l’Annuario ISTAT non lo cita].. I numeri non sono
univoci: ci sono: spese impegnate, di competenza, residui. Grosso modo le
prefetture costano circa 9 miliardi, ma fanno cose utili. Le prefetture costano
6 miliardi, ma non hanno funzioni utili. A parte sprechi lussuosi, i prefetti
servono solo a frenare ed estendere in periferia il potere centrale. Hanno
anche effetti peggiori: 68 anni fa li descrisse duramente Luigi Einaudi. Fu il
più rivoluzionario Presidente che abbia avuto la nostra Repubblica. Non teneva
tanto nemmeno alle province. Scrisse queste parole – in Svizzera, quando
l’Italia era sotto i tedeschi:
Via
il prefetto! di Luigi Einaudi, Gazzetta ticinese 17/7/1944, (firmato Junius)
Proporre, in
Italia ed in qualche altro paese di Europa, di abolire il "prefetto"
sembra stravaganza degna di manicomio. Istituzione veneranda, venuta a noi
dalla notte dei tempi, il prefetto è quasi sinonimo di governo e, lui
scomparso, sembra non esistere più nulla. Chi comanda e chi esegue fuor dalla
capitale? Come opera l'amministrazione pubblica? In verità, il prefetto è una lue che fu inoculata nel
corpo politico italiano da Napoleone. Gli antichi governi erano, prima
della rivoluzione francese, assoluti solo di nome, e di fatto vincolati d'ogni
parte, dai senati e dalle camere dei conti o magistrati camerali, gelosissimi
del loro potere di rifiutare la registrazione degli editti regii, che, se non
registrati, non contavano nulla, dai corpi locali privilegiati, auto-eletti per
cooptazione dei membri in carica, dai patti antichi di infeudazione, di
dedizione e di annessione, dalle consuetudini immemorabili. Gli stati italiani governavano entro i limiti posti
dalle "libertà" locali, territoriali e professionali. Spesso "le
libertà" municipali e regionali erano "privilegi" di ceti, di
nobili, di corporazioni artigiane ed erano dannose all'universale. Nella furia
di strappare i privilegi, la rivoluzione francese distrusse, continuando
l'opera iniziata dai Borboni, le libertà locali; e Napoleone, dittatore
all'interno, amante dell'ordine, sospettoso, come tutti i tiranni, di ogni forza indipendente,
spirituale o temporale, perfezionò
l'opera. I governi restaurati trovarono comodo di non restaurare, se
non di nome, gli antichi corpi
limitatori e conservarono il prefetto
napoleonico. L'Italia nuova, preoccupata di rinsaldare le membra
disiecta degli antichi ex-stati in un corpo unico, immaginò che il federalismo fosse
il nemico ed estese il sistema prefettizio anche a quelle parti d'Italia, come
le province ex-austriache, nelle quali la lue erasi infiltrata con
manifestazioni attenuate. Si credette di instaurare libertà e democrazia e si foggiò lo strumento della
dittatura.
Democrazia e
prefetto repugnano profondamente l'una all'altro. Né in Italia, né in Francia, né in Spagna, né in
Prussia si ebbe mai e non si avrà mai democrazia, finche esisterà il tipo di
governo accentrato, del quale è simbolo il prefetto.
Coloro i quali
parlano di democrazia e di costituente e di volontà popolare e di autodecisione e non si
accorgono del prefetto, non sanno quel
che si dicono. Elezioni, libertà di scelta dei rappresentanti, camere, parlamenti,
costituenti, ministri responsabili sono una lugubre farsa nei paesi a governo accentrato del tipo
napoleonico. Gli uomini di stato
anglo-sassoni, i quali invitano i popoli europei a scegliersi la forma di governo da essi preferita,
trasportano inconsciamente parole e
pensieri propri dei loro paesi a paesi nei quali le medesime parole
hanno un significato del tutto diverso.
Forse i soli europei del continente, i quali sentendo quelle parole le
intendono nel loro significato vero sono, insieme con gli scandinavi, gli
svizzeri; e questi non hanno nulla da
imparare, perché quelle parole sentono profondamente da sette
secoli. Essi sanno che la democrazia
comincia dal comune, che è cosa dei cittadini, i quali non solo eleggono i loro
consiglieri e sindaci o presidenti o
borgomastri, ma da se, senza intervento e tutela e comando di gente posta fuori del comune od a questo
sovrapposta, se lo amministrano, se lo
mandano in malora o lo fanno prosperare. L'auto-governo continua nel cantone, il quale è un vero stato, il quale
da sè si fa le sue leggi, se le vota nel suo parlamento e le applica. Il governo federale, a sua volta, per le cose
di sua competenza, ha un parlamento per deliberare le leggi sue proprie ed un consiglio
federale per applicarle ed amministrarle.
E tutti questi consessi ed i 25 cantoni e
mezzi cantoni e la confederazione hanno così numerosissimi legislatori e
centinaia di ministri, grossi e piccoli, tutti eletti, ognuno dei quali attende
alle cose proprie, senza vedersi mai tra i piedi il prefetto, ossia la longa manus del ministro o governo
più grosso, il quale insegni od ordini il modo di sbrigare le faccende proprie
dei ministri più piccoli. Cosi pure si
usa governare in Inghilterra, con altre formule di parrocchie, borghi, città,
contee, regni e principati; cosi si fa negli
Stati Uniti, nelle federazioni canadese, sudafricana, australiana e
nella Nuova Zelanda. Nei paesi dove la
democrazia non è una vana parola, la
gente sbriga da se le proprie faccende locali (che negli Stati Uniti
si dicono anche statali), senza
attendere il la od il permesso dal governo
centrale. Cosi si forma una classe politica numerosa, scelta per via di vagli ripetuti. Non è certo che il vaglio
funzioni sempre a perfezione; ma prima
di arrivare ad essere consigliere federale o nazionale in Svizzera, o di essere
senatore o rappresentante nel congresso nord americano, bisogna essersi fatto conoscere per cariche
coperte nei cantoni o negli stati; ed
essersi guadagnato una qualche fama di esperto ed onesto amministratore. La classe politica non si
forma da sé, ne è creata dal fiat di una
elezione generale. Ma si costituisce lentamente dal basso; per scelta fatta da gente che conosce
personalmente le persone alle quali
delega la amministrazione delle cose locali piccole; e poi via via
quelle delle cose nazionali od
inter-statali più grosse. La classe
politica non si forma tuttavia se l'eletto ad amministrare le cose municipali o provinciali o regionali non
è pienamente responsabile per l'opera
propria. Se qualcuno ha il potere di dare a lui ordini o di annullare il suo
operato, l'eletto non è responsabile e non impara ad amministrare. Impara ad ubbidire, ad
intrigare, a raccomandare, a cercare
appoggio. Dove non esiste il governo di se stessi e delle cose proprie,
in che consiste la democrazia?
Finche esisterà in Italia il prefetto, la
deliberazione e l'attuazione non spetteranno al consiglio municipale ed al
sindaco, al consiglio provinciale ed al
presidente; ma sempre e soltanto al governo centrale, a Roma; o, per parlar più concretamente, al
ministro dell'interno. Costui è il vero
padrone della vita amministrativa e politica dell'intero stato. Attraverso i suoi organi distaccati, le
prefetture, il governo centrale approva
o non approva i bilanci comunali e provinciali, ordina l'iscrizione di spese di
cui i cittadini farebbero a meno, cancella altre spese, ritarda l'approvazione ed intralcia il
funzionamento dei corpi locali. Chi
governa localmente di fatto non è né il sindaco né il consiglio comunale o provinciale; ma il
segretario municipale o provinciale. Non
a caso egli è stato oramai attruppato tra i funzionari statali. Parve un sopruso della dittatura ed
era la logica necessaria deduzione del
sistema centralistico. Chi, se non un funzionario statale, può interpretare ed
eseguire le leggi, i regolamenti, le circolari, i moduli i quali quotidianamente, attraverso le
prefetture, arrivano a fasci da Roma per ordinare il modo di governare ogni più
piccola faccenda locale? Se talun cittadino
si informa del modo di sbrigare una pratica dipendente da una legge nuova, la
risposta è: non sono ancora arrivate le
istruzioni, non è ancora compilato il regolamento; lo si aspetta di
giorno in giorno. A nessuno viene in
mente del ministero, l'idea semplice che
l'eletto locale ha il diritto e il dovere di interpretare lui la
legge, salvo a rispondere dinnanzi agli
elettori della interpretazione data? Che
cosa fu e che cosa tornerà ad essere l'eletto del popolo in uno
stato burocratico accentrato? Non un
legislatore, non un amministratore; ma un
tale, il cui merito principale e di essere bene introdotto nei
capoluoghi di provincia presso prefetti,
consiglieri e segretari di prefettura, provveditori agli studi, intendenti di
finanza, ed a Roma, presso i ministri,
sotto-segretari di stato e, meglio e più, perché di fatto più potenti, presso direttori generali,
capi-divisione, segretari, vice-segretari ed uscieri dei ministeri. Il malvezzo di non muovere la " pratica
" senza una spinta, una raccomandazione
non è recente né ha origine dal fascismo. E' antico ed è proprio del sistema. Come quel ministro
francese, guardando l'orologio, diceva: a quest'ora, nella terza classe di
tutti i licei di Francia, i professori
spiegano la tal pagina di Cicerone; così si può dire di tutti gli ordini di scuole italiane. Pubbliche o
private, elementari o medie od universitarie, tutto dipende da Roma:
ordinamento, orari, tasse, nomine degli
insegnanti, degli impiegati di segreteria, dei portieri e dei bidelli, ammissioni degli studenti, libri di
testo, ordine degli esami, materie
insegnate. I fascisti concessero per scherno l'autonomia alle università; ma era logico che nel sistema
accentrato le università fossero, come
subito ridiventarono, una branca ordinaria
dell'amministrazione pubblica; ed era logico che prima del 1922 i
deputati elevassero querele contro
quelle che essi imprudentemente chiamarono le
camorre dei professori di università, i quali erano riusciti, in mezzo
secolo di sforzi perseveranti e di costumi anti-accentratori a poco a poco originati dal loro spirito di corpo, a
togliere ai ministri ogni potere di
scegliere e di trasferire gli insegnanti universitari e quindi ogni possibilità ai deputati di raccomandare e
promuovere intriganti politici a
cattedre. Agli occhi di un
deputato uscito dal suffragio universale ed investito di una frazione della sovranità popolare, ogni
resistenza di corpi autonomi, di enti locali, di sindaci decisi a far valere la
volontà dei loro amministrati appariva
camorra, sopruso o privilegio. La tirannia del centro, la onnipotenza del
ministero, attraverso ai prefetti, si converte
nella tirannia degli eletti al parlamento. Essi sanno di essere i
ministri del domani, sanno che chi di loro diventerà ministro dell'interno,
disporrà della leva di comando del paese; sanno che nessun presidente del consiglio può rinunciare ad essere ministro
dell'interno se non vuol correre il pericolo di vedere "farsi" le elezioni
contro di lui dal collega al quale egli abbia
avuto la dabbenaggine di abbandonare quel
ministero, il quale dispone delle prefetture, delle questure e dei carabinieri; il quale comanda a centinaia di
migliaia di funzionari piccoli e grossi, ed attraverso concessioni di sussidi,
autorizzazioni di spese, favori di ogni
specie adesca e minaccia sindaci, consiglieri, presidenti di opere pie e di
enti morali. A volta a volta servo e tiranno
dei funzionari che egli ha contribuito a far nominare con le sue raccomandazioni e dalla cui condiscendenza
dipende l'esito delle pratiche dei suoi
elettori, il deputato diventa un galoppino, il cui tempo più che dai lavori
parlamentari è assorbito dalle corse per i ministeri e dallo scrivere lettere di raccomandazione per il
sollecito disbrigo delle pratiche dei suoi elettori.
Perciò il
delenda Carthago della democrazia liberale è: Via il prefetto! Via con tutti i
suoi uffici e le sue dipendenze e le sue ramificazioni! Nulla deve più essere
lasciato in piedi di questa macchina centralizzata; nemmeno lo stambugio del
portiere. Se lasciamo sopravvivere il portiere, presto accanto a lui sorgerà
una fungaia di baracche e di capanne che si
trasformeranno nel vecchio aduggiante palazzo del governo. Il prefetto napoleonico se ne deve andare, con le radici,
il tronco, i rami e le fronde. Per
fortuna, di fatto oggi in Italia l'amministrazione centralizzata è scomparsa. Ha dimostrato di essere il nulla; uno
strumento privo di vita propria, del
quale il primo avventuriero capitato a buon tiro poteva impadronirsi per manovrarlo a suo piacimento. Non accadrà
alcun male, se non ricostruiremo la
macchina oramai guasta e marcia. L'unita del paese non è data dai prefetti e
dai provveditori agli studi e dagli intendenti di finanza e dai segretari
comunali e dalle circolari ed istruzioni ed autorizzazioni romane. L'unita del
paese è fatta dagli italiani. Dagli italiani, i quali imparino, a proprie spese, commettendo
spropositi, a governarsi da sé. La vera
costituente non si ha in una elezione plebiscitaria, a fin di guerra. Così si
creano o si ricostituiscono le tirannie, siano esse di dittatori o di comitati di partiti. Chi vuole affidare il
paese a qualche altro saltimbanco, lasci
sopravvivere la macchina accentrata e faccia da questa e dai comitati eleggere a costituente. Chi
vuole che gli italiani governino se
stessi, faccia invece subito eleggere i consigli municipali, unico corpo rimasto in vita, almeno come
aspirazione profondamente sentita da
tutti i cittadini; e dia agli eletti il potere di amministrare liberamente; di far bene e farsi rinnovare il
mandato, di far male e farsi lapidare.
Non si tema che i malversatori del denaro pubblico non paghino il fio, quando
non possano scaricare su altri, sulla autorità tutoria, sul governo la colpa
delle proprie malefatte. La classe politica si forma cosi: col provare e
riprovare, attraverso a fallimenti ed a successi. Sia che si conservi la
provincia; sia che invece la si abolisca, perché ente artificioso, antistorico
ed anti-economico e la si costituisca da parte con il distretto o collegio o
vicinanza, unita più piccola, raggruppata attorno alla cittadina, al grosso
borgo di mercato, dove convengono naturalmente per i loro interessi ed affari
gli abitanti dei comuni dei dintorni, e dall'altra con la grande regione
storica: Piemonte, Liguria, Lombardia, ecc.; sempre, alla pari del comune, il
collegio regione dovranno amministrarsi
da se, formarsi i propri governanti elettivi,
liberi di gestire le faccende proprie del comune, del collegio e della provincia,
liberi di scegliere i propri funzionari e dipendenti, nel modo e con le garanzie che essi medesimi,
legislatori sovrani nel loro campo, vorranno stabilire. Si potrà discutere sui
compiti da attribuire a questo o quell'altro ente sovrano; ed adopero a bella posta la parola
sovranità e non autonomia, ad indicare
che non solo nel campo internazionale, con la creazione di vincoli federativi, ma anche nel campo
nazionale, con la creazione di corpi
locali vivi di vita propria originaria non derivata dall'alto, urge distruggere l'idea funesta della sovranità
assoluta dello stato. Non temasi dalla distruzione alcun danno per l'unità
nazionale. L'accentramento napoleonico ha fatto le sue prove e queste sono
state negative: una burocrazia pronta a ubbidire a ogni padrone, non
radicata nel luogo, indifferente alle
sorti degli amministrati; un ceto politico
oggetto di dispregio, abbassato a cursore di anticamere prefettizie e ministeriali, prono a votare in favore di
qualunque governo, se il voto poteva giovare ad accaparrare il favore della
burocrazia poliziesca e a premere sulle autorità locali nel giorno delle
elezioni generali; una polizia, non collegata, come dovrebbe, esclusivamente
con la magistratura inquirente e giudicante e con i carabinieri, ma divenuta
strumento di inquisizione politica e di giustizia "economica", ossia
arbitraria. L'arbitrio poliziesco erasi affievolito all'inizio del secolo; ma
lo strumento era pronto; e, come già con
Napoleone, ricominciarono a giungere al
dittatore i rapporti quotidiani della polizia sugli atti e sui propositi di
ogni cittadino sospetto; e si potranno di nuovo comporre, con quei fogli, se
non li hanno bruciati prima, volumi di piccola e di grande storia di interesse
appassionante. E quello strumento, pur guasto, e pronto, se non lo faremo
diventare mero organo della giustizia per la prevenzione dei reati e la
scoperta dei loro autori, a servire nuovi
tiranni e nuovi comitati di salute pubblica. Che cosa ha dato all'unità
d'Italia quella armatura dello stato di polizia, preesistente, ricordiamolo
bene, al 1922? Nulla. Nel momento del pericolo è svanita e sono rimasti i
cittadini inermi e soli. Oggi essi si attruppano in bande di amici, di
conoscenti, di borghigiani; e li chiamano partigiani. È lo stato il quale si
rifà spontaneamente. Lasciamolo riformarsi dal basso, come è sua natura. Riconosciamo
che nessun vincolo dura, nessuna unita e salda, se prima gli uomini i quali si
conoscono ad uno ad uno non hanno
costituito il comune; e di qui, risalendo di grado in grado, sino allo stato.
La distruzione della sovrastruttura napoleonica, che gli italiani non hanno
amato mai, offre l'occasione unica di ricostruire lo stato partendo dalle unità
che tutti conosciamo e amiamo: la famiglia, il comune, la vicinanza e la
regione. Cosi possederemo finalmente uno stato vero e vivente
Di Roberto Vacca, 6 Aprile 2012